Povere creature!

”Poor things” di Lanthimos: che dire? Film ricco di colori, sfumature, riflessioni, conduce lo spettatore in un mondo “altro”. Questo film di Lanthimos è per noi il migliore dei suoi lavori: convincente, ispirato, non lascia nulla al caso. Moltissime le citazioni letterarie e cinematografiche, una in particolare: Hanna Schygulla, “Martha”, omaggio al grande Fassbinder (oltre che il continuo rimando fassbinderiano nella fotografia).

Bella è una donna, un mostro, una creatura, è figlia e madre di se stessa: tanti gli spunti psicanalitici, in particolare nelle confessioni di Godwin, padre di Bella, sulla propria infanzia. I genitori creano e uccidono, storpiano, distruggono, senza un senso logico, solo perché feroci e crudeli in quanto umani. La crudeltà regna sovrana anche in questo film. Ma perché fa sorridere o ridere? Lanthimos qui usa un semplice stratagemma comunicativo: ci dice che le conquiste di Bella sono un dato acquisito per chiunque abbia letto Freud, la letteratura russa, Emerson e Marx. Considerare ribelle una donna che balla da sola, fa del sesso con chi vuole, decide di se stessa e del proprio corpo… Beh può farlo solo chi ha il cervello di una capra o chi finisce al manicomio. Lanthimos quindi ci presenta il mondo al contrario: dove si può crescere anche se diversi, si può esplorare, conoscere e sbagliare, anche se donne, e alla fine costruire una propria realtà più o meno felice. Il riso che suscita il film è quindi viscerale, autentico e universale: chi non capisce il film, ride per il grottesco che vi è rappresentato, chi l’ha capito ride per la sensazione di libertà nel vedersi così soavemente riconosciuto.

Bussano alla porta

Night Shyamalan, 2023

Il nuovo film di Shyamalan ci riporta all’orrore dei nostri tempi: pandemia, tsunami, incidenti aerei. Un orrore che viviamo quotidianamente ma che attraverso i media ci sembra comunque sempre più distante. Ci tocca in qualche modo la disgrazia altrui? Ne siamo responsabili? Che cosa possiamo fare per salvarci? La risposta è sempre la stessa da migliaia di anni… attraverso il sacrificio possiamo accedere a una qualche forma di verità. Film lucidissimo, spietato, politicamente scorretto, ambiguo, pone tanti interrogativi, tra cui la divisione sociale, il problema dell’odio, la manipolazione mediatica, la violenza come forma di salvezza. Sacrificio, violenza e apocalisse sono i temi di questo film, che non risparmia nessuno, in particolare gli adulti, benestanti, pieni di sicurezze e di verità difensive. E i bambini? “Ai bambini dobbiamo parlare solo di ciò che sappiamo davvero”, dice uno dei protagonisti. E Shyamalan tratta lo spettatore un po’ così, scrive e dirige film su ciò che sembra conoscere e aver meditato molto bene.

Shutter Island

Film del 2010 di Martin Scorsese è un’altra riflessione sul doppio, dopo The departed, nella produzione del regista. A questa riflessione si intrecciano altri temi, come l’Olocausto, la follia, la violenza, la reclusione: tutto è un incubo, tutto è una prigione, come recita lo Stalker di Tarkovskij, e proprio a Tarkovskij rimandano molte ambientazioni e scelte fotografiche del film. Credo che in questo stia la magnificenza di questa pellicola: lo stile del regista russo è un sottotesto che permane sia negli elementi (l’acqua), sia nella scelta delle inquadrature (la finestra, la casa sul lago). Il processo di disvelamento psicanalitico porta il protagonista a scoprire nuovamente la propria identità, ma più importante è che ciò porta lo spettatore a interrogarsi sulla realtà, sulle proprie certezze. Nulla è sacro, niente resta al riparo dalla distruzione, un rovinoso scorrere acqueo verso la verità: la libertà è la morte, sembra volerci dire il protagonista. Come davanti ai film di Tarkovskij lo spettatore resta ammutolito, spaesato, portando con se la bellezza del colore, della musica (Mahler e M. Richter), insomma conservando in sé quel poco che rende sopportabile l’esistenza.

Cry Macho

L’ultimo (forse davvero l’ultimo) film di Eastwood, Cry Macho, è una sorta di sintesi del cinema eastwoodiano. I temi sono quelli di Gran Torino: la differenza culturale, generazionale, l’immigrazione. In un’America che cambia velocemente, Eastwood resta sempre Eastwood: il corpo e la voce molto invecchiati, la macchina da presa che si muove lentamente e si sviluppa attraverso panoramiche sulla natura della grande America, il regista resta fedele a se stesso. Denuncia le incongruenze di un sistema politico e sociale che costringe le persone ad emigrare per trovare libertà e sicurezza, non cade mai in buonismi, necessariamente politicamente scorretto, Eastwood rivela gli aspetti di un Messico corrotto, desertico, abbandonato e nel contempo l’umanità di alcuni personaggi, perché l’individuo, il singolo, può fare la differenza. Almeno in America. Sulla vecchiaia Eastwood non nasconde nulla, non ripiega su una possibile conversione religiosa: forse crede in Dio, come risponde al ragazzo, o forse no. Di sicuro da questo film traspare che invecchiare significa donare alle nuove generazioni il proprio sapere, essere consapevoli che la morte è vicina e dare valore alle relazioni con gli altri, sino alla fine.

Old

Old di  M. Night Shyamalan

Eccoci al film di Shyamalan mai così attuale: un affresco semihorror sui tempi pandemici. Dite che non c’entra nulla la pandemia? Se consideriamo che il film è stato scritto su Skype durante il lockdown del 2020 e se consideriamo la sensibilità ipertrofica del regista, beh forse possiamo presumere che ci sia qualche correlazione. Non a caso tutto il film è focalizzato sulla dimensione esistenziale dei protagonisti che capitano sull’isola: il regista ne analizza le dinamiche relazionali, i problemi di salute, il disagio, il terrore e la morte. Solo alla fine viene svelato l’arcano segreto, la chiave per comprendere tutti gli accadimenti. Fino ad allora lo spettatore può solo congetturare, fare ipotesi, spaventarsi o ridere, partecipare con i malcapitati sull’isola stregata, alle loro ultime ore di vita. E alla fine diventa tutto perfettamente chiaro (più o meno perfettamente chiaro, secondo lo stile di  M. Night Shyamalan): lo spettatore conosce, sa, comprende, gli attori sono solo vittime. In questo il regista si avvicina ai grandi registi del passato, da Bresson a Bunuel; lasciare l’interpretazione a chi guarda, confidando nell’intelligenza critica del pubblico.

La Comune

Abbiamo visto questo film di Vinterberg sulla scia dell’Oscar a “Another Round”. Il film non ci ha lasciato delusi ma neppure entusiasti, una sorta di inquietudine pervade questa creazione filmica, che è ambigua, sottilmente noir. In questo film c’è molta “danesità”, e un po’ di autobiografia del regista. Sembra quindi un lungometraggio familiare, che racconta una situazione che potresti aver vissuto anche tu: coppie che si tradiscono, amici che si incontrano e poi litigano, figli che si allontanano per ritornare.

I paesaggi sono pochissimi, è quasi tutto girato in interno, in una grande e bella casa dalle pareti colorate. La fotografia rimanda agli anni Settanta, anni in cui gli esperimenti della Comune erano all’ordine del giorno, in particolare nel Nord Europa.

Il film non vuole sollevare grandi e filosofici interrogativi, forse vuole solo raccontare uno spaccato di vita quotidiana, in cui le persone tentano di vivere insieme, pacificamente, senza riuscirci. Il capro espiatorio resta sempre la via maestra per ogni gruppo, compreso questo della Comune. Attori un po’ sopra le righe, ma nel complesso risulta un film riuscito, corale, commuovente.

Il tabaccaio di Vienna

Atmosfere espressioniste per questo film su Freud: infatti è proprio di Freud che si parla dall’inizio alla fine del film, Freud invecchiato in fuga dall’Austria nazista. Il film si apre con paesaggi plumbei sulla montagna austriaca, e arriva a svolgersi in un cantuccio di Vienna, In una tabaccheria, dove il protagonista diciassettenne trova lavoro. Il lavoro del tabaccaio in quegli anni non può non richiamare il buon vecchio Sigmund, amante dei sigari, anche se già con un tumore avanzato alla mascella che gli procurava forti dolori. L’adolescente e lo psicanalista diventano amici, complici i sigari Avana che il ragazzo ruba dal negozio per avere l’occasione di interloquire con il grande medico, che “mette a posto” la testa della gente. Il ragazzo è l’alter ego di Freud: lui è giovane, Freud è vecchio, lui non sa nulla, Freud sa tutto. Il ragazzo sogna, Freud (la macchina da presa) interpreta. In questa idea sta la bellezza del film.

Nel film si intrecciano sogni, dimensioni oniriche, diverse scene legate al sesso, ed altre alla distruzione nazista. Questa pellicola ha il merito di far riflettere sugli ultimi anni del grande genio, Freud, che vecchio, malato, deve abbandonare la sua città per via della persecuzione nazista.

Freud è rappresentato da Bruno Ganz, un signore distinto con la faccia un po’ troppo bonaria, Freud lo immaginiamo più spigoloso… il nostro caro vecchio Freud.

Magic in the moonlight

Quando Allen racconta degli anni Venti, delle atmosfere europee del primo Novecento, tocca i vertici del suo cinema. Qui, come in Cafè Society, la fotografia è impeccabile, gli attori perfetti, le atmosfere soavi, leggere, di una grande raffinatezza formale. Il protagonista è uno scettico, perfezionista, sprezzante, geniale, eccentrico, freddo, un po’ depresso: l’ennesimo alter ego di Woody Allen, che cerca l’elemento magico nella vita, che cerca una possibile risposta. Bè, se non esiste la trascendenza, non c’è un aldilà, se la vita non ha uno scopo, però può avere un po’ di magia, afferma la zia del protagonista (il protagonista è un Colin Firth finalmente in parte): è la magia di un cielo stellato, di un incontro, di un gesto di generosità, di un atto d’amore.

Tra i personaggi spiccano un medico-psicanalista (ennesimo omaggio di Allen alla psicanalisi), alla disperata ricerca anch’egli di “Qualcosa oltre la scienza”, un amico che tradisce per invidia, un’amabile zia. Il tutto in un’ armonica danza tra personaggi, che si riconoscono, si allontanano, come se la mano divina li guidasse. Ma, ci dice Allen, non c’è alcuna mano divina, solo quella del regista, la mia. Solo nell’arte, nella natura, nelle relazioni con gli altri, ci può essere un elemento magico, divino, sacro. Sta solo ai personaggi far sì di poter costruire relazioni magiche, vite d’artista, sta solo ai personaggi saper cogliere la bellezza e farne tesoro.

Lettere di uno sconosciuto

Il film Lettere di uno sconosciuto, di Zhang Yimou, del 2014, è un film sulla perdita e il lutto. Come reagisce il nostro corpo, la nostra mente, in seguito a una grave perdita? Con la rimozione. La protagonista invecchia portando con sè le ferite di un regime che non lascia spazio a nessuna forma di differenza: diventa così una sorta di simbolo della distruttività del potere. Rinchiusa nei ricordi che seleziona di giorno in giorno, la forma di sopravvivenza che le appartiene è quella di non riconoscere, di non ricordare alcuni eventi e persone, ma di ricordarne bene altri. In particolare la protagonista (Gong Li) ricorda gli eventi più terribili, violenze, tradimenti, traumi. Non ricorda però la bellezza della propria esistenza, al punto da non riuscire a riconoscere il marito che ritorna dopo vent’anni. Tutto ciò che era legato a quest’uomo deve restare confinato a delle lettere, a qualcosa di immateriale, che non può ferire, che non può portare più a sofferenze. Nella lettura delle lettere la protagonista trova così una sorta di conforto, di perdono, riesce a riaccogliere la figlia a casa, “ad andare avanti”, ma continua a non riconoscere l’uomo che ha scritto quelle lettere, nonostante sia proprio quest’uomo a leggerle per lei. Con questo film Yimou sembra voler affermare che il potere spezza e distrugge interiormente chiunque e qualunque cosa, anche i legami più stretti e profondi. Per reagire a questa forma di violenza il soggetto deve necessariamente mettere in atto dei meccanismi di difesa ancora più spietati, violenti, distruttivi, sia verso di sè sia verso gli altri.

Roma

Roma di Cuarón, un film tanto acclamato quanto poco ci ha convinto. Inizia con circa 10 minuti di cinepresa sull’acqua che scorre su un pavimento: e già dopo i primi tre minuti nasce spontaneo chiedersi: “è Godard? no” “e allora?” “Alziamoci e andiamocene”. Poi si scopre che quell’acqua non è acqua di sorgente, un’immagine poetica della realtà, o dell’acqua sulla strada di una metropoli, durante una pioggia torrenziale, un modo per interrogarsi sul vivere contemporaneo, no è l’acqua che la cameriera, protagonista del film, usa per pulire la merda dei cani del padrone. Eh allora, pensi, vedi che dovevamo andarcene. Non c’è che dire, Cuarón il suo lo sa fare, il film è girato bene, il bianco e nero un’idea già vista ma sempre di grande effetto, soprattuto se si vuole raccontare dell’umano come farebbe un entomologo. E in effetti il regista è una sorta di entomologo che guarda all’uomo come a un insettino, in particolare se l’uomo in questione è povero e ignorante, se deve servire e riverire i ricchi e i potenti, che però sono buoni, lo accolgono e lo aiutano. La scena più raccapricciante del film è la scena finale, che qui ovviamente non vogliamo raccontare, ma che svela tutta la retorica un po’ vischiosa che si avverte per tutto il film, quella retorica della buona serva e della buona società che in fondo va bene così com’è. E quel vischioso, per tutto il film, senti proprio di volertelo togliere di dosso.

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